Dopo la grande tradizione architettonica che si è espressa dal mondo antico fino a metà del secolo XX si è manifestata una caduta qualitativa delle progettazioni e delle costruzioni corrispondente all’edilizia di speculazione. Così si è pronunciata la critica più radicale. Per alcuni si salvano solo gli interventi di “firme” dell’architettura moderna, usate talvolta come alibi.
Si può non essere d’accordo?
Infatti, la cultura architettonica del dopoguerra in Italia è stata condizionata dallo Stile Internazionale dei grandi architetti d’oltre oceano. Maestri di una inevitabile retorica opaca e funzionalista. Si è imposta un’ideologia di forte derivazione consumistica, che ha accolto con favore progetti e realizzazioni lontani dalla nostra tradizione. Ma che sono espressione di uno sviluppo urbano senza alcun legame con il territorio, anzi con una influenza disgregante del rapporto città/campagna.
Contro la tradizione
Bruno Zevi, maître à penser della critica architettonica più accreditata, sulle colonne della rivista L’Architettura, testata di prestigio e di riconosciuto credito professionale, avallava ogni contributo di ispirazione moderna. Sia pure con studiati e puntuali distinguo, arrivava a emarginare architetti evidentemente considerati non allineati e passatisti, come Bofill e Leon Krier. Trascurava di risaltare il loro valore, nulla dicendo della loro ricerca di un’architettura legata ala tradizione e senza alcuna considerazione delle loro opere di grande valore culturale.Parlare di colonizzazione culturale in questo caso non è azzardato. Anzi è forse riduttivo, se si pensa all’assenza di autonomia e di indipendenza creativa, accentuata e ancor più grave se si pensa alle radici culturali del nostro Paese.
Una critica inascoltata
In realtà all’architettura cosiddetta moderna si deve collegare un modello di sviluppo che ne ha condizionato forme e dimensioni. Peraltro in un contesto compromesso da un assetto urbanistico a crescita continua e incontrollata con regole spesso disattese o
accomodanti.
Non sorprendono quindi le affermazioni e le posizioni di coloro che da tempo fanno una critica serrata agli orrori dell’epoca moderna, critica non sempre circostanziata e precisa, ma rivelatrice dello stato di malessere di certa nostra cultura. Sorprende semmai il silenzio del nostro establishment culturale, ed in ispecie di quello architettonico, che nulla ha da dire, neppure per plaudire, delle nuove opere che hanno compromesso e si apprestano a stravolgere città e territorio del nostro Paese.
Grandi investimenti
Il grattacielo Intesa San Paolo di Torino alto 150 metri costato 350 milioni di euro, il progetto City Life di Libeskind di 1 milardo e mezzo di euro, la “nuvola” di Massimiliano Fuksas per il Centro Congressi Italia a Roma di oltre 200 milioni di euro.Fatti passare per opere della nuova architettura con la supponenza e l’arroganza di rivoluzionari di mestiere, in realtà rappresentano i simboli del potere e di un modernismo senza scrupoli. Basti pensare che per far posto al City Life di Milano si è demolito il Padiglione Meccanica della vecchia Fiera di Milano, opera egregia di Melchiorre Bega costruita alla fine degli anni 60.Il modernismo è quasi sempre espressione di un tecnicismo esasperato. Bromfield già agli inizi del novecento metteva in guardia da un uso sconsiderato della tecnologia, prefigurando una progressiva riduzione dell’architettura ad opera di ingegneria, denunciandone una deriva inarrestabile dovuta alla perdita di identità e autonomia del progetto architettonico. Oggi siamo andati oltre ogni più fosca previsione se pensiamo che un imprenditore come Ligresti voleva “raddrizzare” le torri sghembe del City Life a Milano, senza consultare il progettista e al solo scopo di ridurre i costi; una intromissione inaudita, tuttavia significativa per comprendere rapporti d’affari e di potere, certamente inaccettabile anche se l’opera in questione è di per se già discutibile.
Modelli di riferimento
Se vogliamo ritrovare equilibrio e saggezza costruttiva dobbiamo ricollegarci ad una tradizione trascurata e ingiustamente accantonata, recuperare senza pregiudizi il valore di opere passate alla storia senza trarne i dovuti insegnamenti: l’Arco Imperiale progettato da Adalberto Libera per l’Eur 42 è un esempio di grande capacità progettuale, una fusione perfetta di forma e tecnica: l’alluminio piegato a forma di arco a tutto sesto esprime in una monumentalità moderna, in un sodalizio perfetto fra tecnologia e forme classiche della tradizione romana.
Se vogliamo ritrovare il Bello, pur senza scomodare Plotino in concezioni e in riflessioni filosofiche, dobbiamo liberarci dalle facili illusioni del modernismo e dai suoi fautori più intransigenti.
Laureato in Architettura svolge la sua attività professionale a Milano dove apre uno studio di progettazione e consulenza nel settore delle costruzioni. Nel contesto di iniziative parallele, si dedica a progetti di allestimenti e comunicazione a livello internazionale. Redige numerose relazioni di ricerca e approfondimento di temi tecnici e scrive libri per varie associazioni. Collabora a giornali e riviste con articoli di architettura, con particolare riferimento alla città e allo sviluppo urbano. Partecipa come opinionista a trasmissioni televisive nell’ambito di iniziative volte a descrivere con spirito critico la città nei suoi molteplici aspetti e funzioni. Attualmente sta scrivendo un libro sulla città globalizzata, sui rischi della perdita della sua identità in quella che la cultura sostenitrice del processo di assimilazione progressiva chiama “residenza disaggregata".
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