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E’ in corso, un lavoro incessante di produzione tecnologica strutturalmente interessante che alla raffinatezza dei materiali usati, però non valorizza adeguatamente l’idea di “spiritualità” dell’architettura. Particolare, non poco importante, capace di invalidare qualunque intervento dell’uomo nello spazio. W.Th. Otto diceva: “ l’architettura attraverso l’imperio della tecnica rischia di perdere il proprio significato culturale… La casa macchina toglie all’architettura la sua qualità spirituale, riducendo la sua capacità di produrre felicità umana”. Allora, cerchiamo di capire cosa significa “qualità spirituale” e “felicità umana”, per avere un’idea del valore dell’architettura. Più che soddisfacimento della qualità della vita, essa si propone sempre più come “evento” spettacolare, mediatico a volte capace di salti qualitativi eccellenti (pochi) tra molti esperimenti strategici di marketing. Osservando bene, la realtà dei fatti ci accorgiamo facilmente dei suoi limiti estetici e culturali. Succede spesso, in un lavoro progettuale che cercando di sintetizzare al massimo le funzioni e le forme, non si arrivi ad uno scopo preciso, finendo per tralasciare parametri che sono invece fondamentali per il risultato. Prendiamo ad esempio, la trasformazione che l’architettura ha subito in Giappone e la particolarità di un certo uso di materiali, che oggi la descrivono, in quel paese. Sembra che la scelta, come primo approccio figurativo e tecnico, neghi la funzione essenziale dell’architettura: la relazione. Inserita, infatti, in uno spazio astratto, quasi etereo, questa architettura si caratterizza da un’aura che esprime un valore, banalmente sovrastorico, dato dall’uso ossessivo dei prismi puri, presuntuosamente obbligati ad una, ormai stretta, metafora “spirituale”. (Quante volte si è denunciato l’uso indiscriminato di piramidi, cubi, sfere o prismi in genere. Figure che rifiutano qualunque tipo di rapporto con l’intorno in quanto perfette, e quindi, lontane dal quotidiano svolgersi della vita dell’uomo!). L’uso di queste forme è la verifica di una resa incondizionata, alla possibilità di confrontarsi con l’intorno o di relazionarsi con il luogo. O- Museo,1995/99 SANAA/Kazuyo Kazuyo Sejima+Nishizawa Museo N, SANAA/Kazuyo Sejima+Nishizawa Infatti, lo studio ripetitivo, quasi manualistico di certi particolari per la costruzione di queste scatole trasparenti, porta solo a concentrare l’attenzione all’interno, dove, come in un laboratorio asettico e lontano dalla realtà vitale, si verifica l’esperimento in una provetta e, per esaltarne, la valenza ipertecnologica si mette sottovuoto! Sembra, in questo caso, che la tecnologia sia stata messa sotto conserva per aspettare il momento giusto per aprire le scatole e farne uso, dosandone il contenuto, come e dove si vuole, affibbiandole, magari una possibile valenza culturale di sintesi segnica derivata da chissà quale maturazione sociale, o un’immagine scenografica d’effetto, intingendo il tutto, in una buona teoria architettonica! Il procedimento in base al quale avanzare un’idea di trasparenza come pura relazione, già affrontato in questa serie di articoli, ha avuto la possibilità di avere visibilità storica, ora si aspetta che ci si addentri in altri tentativi e azzardi progettuali! Diventa sicuramente apprezzabile l’approccio e la ricerca, ma il fenomeno costruttivo, ha bisogno di qualcosa in più per potersi tradurre in una nuova visione che abbia un collegamento architettonico. Per adesso, questa ricerca, procede a distribuire una serie di cristalli-scatola, interni di ghiaccio, una vita inserita in ambienti immersi in azoto liquido. Eppure questa realtà si è moltiplicata e ha riempito le riviste specializzate da 4-5 anni a questa parte, con argomentazioni quasi monotematicamente e sperimentalmente giapponesizzanti. Di certo il fenomeno, ha evidenziato uno stato di avanzamento della tecnologia strutturale e di una ricerca linguistica continua, che affonda le sue radici nel passato e quindi nella tradizione prettamente giapponese. Comunque, il risultato, traccia nuove superfici che non diventeranno mai piani e genera infinite trasparenze che non comunicheranno una relazione. La realtà vede una cascata di nuovi particolari e torrenti di tipologie e trattamenti delle superfici trasparenti; vetro, doppio vetro, vetro strutturale, vetro opaco, vetro serigrafato, vetro stratificato, vetro opalino. Al posto dei tramezzi interni fatti di carta e legno che funzionavano come vere e proprie membrane scorrevoli capaci di sparire con movimenti quasi cerimoniali. Ora, queste superfici, si sono trasformate in vetro di tutti i tipi. L’opacità della membrana di carta che pur nella sua effimera essenza manteneva una “carnale” matericità legata all’abitazione, si è dissolta. Il legno leggerissimo ha lasciato il posto al metallo, e il tatami, generatore proporzionale della grandezza dell’abitare giapponese, si è sintetizzato in piani spaziali a supporto di nuove funzioni. Daycare Center/97-2000 SANAA/ Kazuyo Sejima+Nishizawa Daycare Center/97-2000 SANAA/ Sejima+Nishizawa Daycare Center/97-2000 SANAA/ Kazuyo Sejima+Nishizawa Casa-M, 96/97 Kazuyo Sejima+Nishizawa Freddamente in questi ambienti ibridi, la visione dello spazio si realizza con molta difficoltà per la partecipazione percettiva e sensoriale specialmente per quello che queste strutture devono contenere. L’ambiente è diventato immateriale. Un cubetto di ghiaccio isolato in un tessuto saturo di realtà complesse. Si presenta così il sobborgo di Yokohama in Giappone, che tra il 97/2000 ad opera dei Kazuyo Sejma+Ryue Nishizawa è stato il tavolo di prova di una realizzazione diventata, per me, l’insegna di un intervento che si allontana dal tessuto e relega, le funzioni isolate in un blocchetto trasparente, avulso palesemente da una realtà “altra”. Forse una tradizione, di cui parla Roland Barthes, del prezioso cerimoniale del “pacchetto” o della scatolina giapponese. Prezioso contenitore significante e messaggio di una confidenza e un rispetto per la relazione con i propri simili. Un contenitore trattato come un’opera raffinata, una presentazione elegante di un segno che ben presto mostrerà il suo interno. Molte volte, a detta di Barthes, meno prezioso della scatolina in cui è contenuto! O-Museum,1995/99 SANAA/Kazuyo Sejima+Nishizawa N-Museum 95/97 SANAA/Kazuyo Sejima+Nishizawa Shigeru Ban, Naked House, 2000 Che certi architetti abbiano, assecondato per convenienza, conseguente al fenomeno, di abbandonare l’interesse per l’involucro come opera, intesa di “seconda mano”, banalmente, usando dei volumi puri, incuranti della relazione con l’ambito segnico, inteso come confluenza d’idee e ricerca. Arresi alle mode e soprattutto alla velocità d’appropriazione di un’idea da trasmettere velocemente, senza compromessi culturali, il discorso progettuale diventa più facilmente vendibile! Ma noi sappiamo che l’architettura è un’altra cosa, sarebbe banale, infatti fare un elenco dei maestri che esaltando le qualità espressive dei materiali da costruzione dai più poveri ai più ricercati invaliderebbero queste ipotesi allucinanti di breve quanto assurda durata. Lo hanno comunicato intensamente, soprattutto con il tempo, con l’esperienza e la ricerca appassionata della loro vita, sprezzanti delle deviazioni stilistiche e delle ricadute accademiche, l’importante è saperli riconoscere e per riconoscerli c’è bisogno solo di una cosa: dello studio dei fenomeni che riguardano l’architettura nel passato e nel presente. Analizzando le sue piccole e rivoluzionarie sfumature. Edificio U/Kazuyo Sejima+Nishizawa Edificio U/Kazuyo Sejima+Nishizawa Casa –S, 97 SANAA/ Kazuyo Sejima+Nishizawa Dopo una stagione di ambienti “astratti”, seducenti, razionalmente definiti da estreme trasparenze che, a seconda del fotografo di turno, sono visti come volumi puri, prismi tombali o vuoti rarefatti, che s’ inseriscono, senza difficoltà, all’atmosfera densa della città periferica giapponese, ecco che sentiamo la mancanza di una forte dose di strutture che si proiettano nello spazio, di una raffinata matericità. Guardando questi ambienti ci manca la “vivibilità” dei materiali, i colori e i riflessi di una condizione umana che appropriandosi di elementi della natura si rivela, colloquiando con l’individuo in mille relazioni e infinite variazioni. Poi, magari la maturazione e lo studio di soluzioni di strutture trasparenti, possono sicuramente risolvere problemi percettivi e visivi più vicini alla materia in trasformazione. Se il legno tornerà a trasmettere gli impulsi e i colori giusti e il metallo saprà recepirli esprimendoli, allora sia la pietra sia il vetro, suo diretto discendente, avranno delle possibilità espressive fondamentali, per una pratica rinnovata, che alla cultura dei materiali, unirà una sperimentazione consona, se non direttamente legata alla vita di questi elementi ancora tutti da scoprire. Coop Himmelb(l)au Progetto per Bienne Centro per le Arti Contemporanee Zaha Hadid, Roma Visioni, di Jean Nouvel Carlos Zapata – Casa privata, Ecuador, Quito Penso che, il proliferare di novità tecnologiche e la loro programmata velocità di divulgazione e accettazione sociale, abbia bisogno di vettori portanti (“scatole” da confezione) uniti ad una decisa possibilità di incuriosire mostrando in quale ambiente, questa tecnologia, si possa comodamente realizzare e contenere. E’ in quest’ottica di “pura strategia” di mercato, che sono elaborati meccanismi progettuali, che appassionano e incuriosiscono tutti, ma così facendo, l’architettura rischia di impantanarsi in una nuova stagione neo-postmoderna, e che sia usata come merce “civetta” tra gli scaffali di gadget, banalmente rivestiti dai grandi strateghi o esperti di marketing. La tecnologia e il mercato hanno perciò preparato la confezione per il prossimo “loro” futuro. Infatti, ecco comparire scatole-confezioni (trasparenti) come solo i Giapponesi a detta di Roland Barthes sanno fare, intendendosi più della cerimonia di confezione e preparazione della scatolina per impreziosire ciò che, in effetti, a volte è molto limitato nella vera ricchezza del regalo in sé! Il discorso non potrà essere sostenuto a lungo perché la differenza d’intervento e la cultura stessa architettonica (era il momento!) sta facendo decrescere, come al solito, la parabola. Dopo aver trovato il suo punto massimo nella Mediateca di Sendai di Toyo Ito che, a detta dello stesso architetto, è basata su principi del “moderno” occidentale, sia per la pianta libera sia per i pilastri (nervati) che sostengono il volume di Lecorbusieriana memoria, penso si stia sbriciolando in piccoli interventi che usano la trasparenza fine a se stessa, non più trascinante come agli inizi della ricerca. Mediateca Sendai Toyo Ito,pilastri che forano i solai e compenetrano i piani, i grandi quadri-finestre in vetro opalino, Museo N SANAA/Kazuyo Sejima+Nishizawa Museo-O, 95/99/Kazuyo Sejima+Nishizawa Mediateca Sendai Toyo Ito La visione asettica e immobile di queste strutture o contenitori, intesa come “pura” azione vitale sublimata, è il limite di questa tecnologia giapponese, perché di questo si tratta; generata da una lapalissiana forzata trasparenza e sfiorando l’effimera permanenza ha scelto di non colorare, di non comunicare, evidente quindi la solitudine formale e concettuale che si avvicina ad un costruito che prima di essere dichiarato futuribile diventa già “memoria”. Il meccanismo a noi conosciuto, che insufflava energia vitale e che rispondeva al nome di architettura, rompeva i volumi e polverizzava le forme chiuse, non poteva assolutamente tradursi in cubi o prismi regolari, disperdersi dappertutto in vetrini o generare acquari; dentro i quali, come in una mostra di pesci tropicali, intende osservare gli ultimi esperimenti strutturali o analizzare le varie relazioni umane, a questo punto, bloccate e messe sotto-vetro. Certo, diventa di una fondamentale realtà l’intendimento architettonico che, rispettando una nobilissima storia e tradizione giapponese, nel suo passato annovera, purtroppo, eventi disastrosi come sismi e terrificanti fenomeni atmosferici che hanno trasformato stravolgendolo nella storia, il volto di numerose città del Giappone. Quindi il modo di costruire ha risentito delle esperienze passate e si è diretto una visione d’intervento costruttivo che usa materiali leggeri o velocemente sostituibili, per cui il perfezionamento strutturale è diventato lo scopo necessario ormai vissuto come elemento centrale per una pratica progettuale estremamante qualificante. E’, però da tenere in conto il fatto che, tale prassi metodologica, abbia abbandonato certi parametri fondamentali della relazione architettonica alla base, invece, di quella dall’occidente e abbia preso una direzione che avvicinandosi alla trasparenza, si è diretta precipitosamente alla dissoluzione. Non consapevole del fatto che la particolare “rarefazione” architettonica, se non controllata adeguatamente, scegliendo e sperimentando la fusione con altri materiali, in breve tempo esaurisce la sua carica d’ energia e si conclude dissolvendosi. Ottima la ricerca delle soluzioni che vedono le numerose “case da museo” dei Sejima e Nishizawa, particolarmente nello studio di certi riflessi e nella trasparenza variata, forse alla scoperta di nuovi livelli di comunicazione e relazione tra gli ambienti. Lo spazio trattato con questi materiali sembrerebbe perfettamente sotto controllo. E’ il lato più avvincente ed esaltante dell’esperienza tecnologica giapponese, ed è quello, che secondo me, se non inserirà e azzarderà nuove emergenze, determinerà molto probabilmente, un limite progettuale. L’esempio pratico di una sintesi architettonica perfetta, ma inutilizzabile se manca l’umanità dei materiali che solo dalla tavolozza delle sensazioni, riescono a trasmettere. Materiali, anche caldi, che si lasciano apprezzare e sensualmente indagare dalla luce e dalla nostra percezione, nella più pura libertà delle funzioni, fino all’esperienza di viverli, magari relazionandosi in un’intimità che a volte “trasmette” e si relaziona per naturale elezione, più di cento trasparenze e mille riflessi. Da, “L’impero dei segni”di Roland Barthes. “…Così, la scatola tiene il ruolo di segno: come involucro, schermo, maschera, essa vale per ciò che nasconde, protegge e pertanto designa, essa dà il cambio, se si vuol intendere quest’espressione nel suo doppio senso, monetario e psicologico: ma ciò che essa racchiude e significa è lungamente rimandato a dopo, quasi la funzione del pacchetto non fosse tanto quella di proteggere nello spazio quanto rimandare nel tempo. E’ infatti nell’involucro che sembra concentrarsi il lavoro della confezione (del fare), ma attraverso tutto questo processo l’oggetto stesso perde la propria esistenza, diventa miraggio: di viluppo in viluppo il significato fugge e quando infine lo si raggiunge (c’è sempre un minimo, qualche cosa, nel pacchetto) esso appare insignificante, derisorio, vile : il piacere, campo del significante, è stato afferrato: il pacchetto non è vuoto, ma vuotato: trovare l’oggetto che sta nel pacchetto, ovvero il significato che sta nel segno, significa gettarlo via: ciò che i giapponesi trasportano, con energia formicolante, non sono altro in definitiva che dei segni vuoti.” Fonti delle foto e citazioni: Lotus navigator n.3 luglio 2001 El Croquis, Kazuyo Sejma/Ryue Nishizawa, 95/2000 Architettura OFX, n.67 Roland Barthes, L’impero dei segni.