La grana dell’architettura

Tecnomade, il corpo attraverso .

di Paolo Marzano

” […] I corpi sono espressioni in movimento è questo che ne caratterizza il tratto più rilevante che ne caratterizza la potenza sia quando essa è in crescita che quando è in diminuzione. Ora, questi ritmi e queste forze producono ambienti; ambienti variegati chiamati a declinarsi costantemente e con le pratiche di costituzione del sociale. Un corpo che produce ambiente appare pertanto come una forza che interagisce con situazioni date, adattandovisi e modificandole. Un simile processo realizza un andamento tutt’altro che lineare poiché occorre che alle urgenze del corpo facciano riferimento tutti quei piani di relazione, quelle pieghe e quelle istituzioni che predispongono l’ambiente non solo ereditato ma anche l’ambiente di riferimento e costruzione che si realizza in un determinato momento. Entrambe queste realtà esprimono un orizzonte macchinico e plurale che costituisce il presente al quale i corpi appartengono…” da Tecnologie del controllo, di Tiziana Villani, collana Mimesis millepiani n. 19 Capita, durante un viaggio, di fermarsi in un luogo sconosciuto e guardare una cartina per trovare punti di riferimento rispetto ai quali stabilire le nostre prime e personalissime relazioni. Da quel momento non dimenticheremo mai sia il nostro stato di disorientamento ed il conseguente iniziatico momento in cui, il luogo acquista i suoi primi relazionanti segni esplicativi. Da qui partiamo per formare la ‘nostra’ rappresentazione mentale di quella città. Dalla stessa cartina, possiamo cogliere visivamente i diversi livelli di funzionalità e i diversi codici appartenenti alle differenti forme strutturali di comunicazione; la rete stradale quella fluviale (se esiste), quella sotterranea, quella montagnosa o pianeggiante. Per ogni relazione differente cogliamo il conseguente sistema di riferimenti per cui l’intensificarsi degli sforzi umani stà nel fatto di rendere utilizzabili questi apparati, queste etensioni, questi luoghi differenziati – differiti posti in una complessa intelaiatura funzionale. Sono protesi dinamiche del corpo collettivo, utili per soddisfare le normali esigenze umane d’accesso ai luoghi. Niente di più razionale e nello stesso tempo, niente di più difficile. La dimensione della ‘trilogia’ degli scritti di tempo fà L’ Uomo altrove – L’Uomo Diffuso – L’ Uomo urbano , è praticamente realizzata. Ne parlammo approfonditamente apportando altre osservazione sul tipo di limite esistente in questa ‘diffusione ‘ intesa come appropriazione di spazio. Abitiamo quindi, porzioni della città diffusa o de L’ipercittà di André Corboz. Vivere in una città, lo abbiamo compreso, è quindi, ‘accedere’ a sistemi comunicativi diversi. Entrare in essa è la condizione necessaria per poterne vivere l’essenza, prima che entità concettuale, è importante la sua ‘primordiale’ potenza relazionale. La città lancia sul corpo fisico, aculei informativi d’intensità inaudita, tangibili sovrapposizioni di senso, uno zapping che non lascia respiro e intensifica la sua potenza dirompente in quadri prospettici deformati piuttosto invasivi. Sono questi gli effetti percepibili, le regole inderogabili di una legge urbana diffusa e soprattutto vitale. La città è un oggetto relazionale, “… possiede un’esistenza oltre la sua propria realtà e che crea con il pubblico una relazione duale, non semplicemente interattiva, fatta di momenti di deviazione, di contraddizione e di destabilizzazione .”, da Architettura e nulla – Oggetti singolari , J.Baudrillard/ J.Nouvel. La città è rivelazione continua che si attua con semplici azioni minimali di chiara e ravvisabile intimità individuale, un flusso trasparente chiaro nei suoi significati che imponderabilmente coinvolge l’attenzione sollecita la percezione, ha il grande potere di assemblare connettendo visioni oppure di ‘scollare’ divincolando funzioni che sembravano prima sotto controllo. Ad un passo da questo concetto, esiste una piccola grande verità ; la città è il punto di connessione tra il ‘territorio’ e il ‘corpo’, tra il desiderabile e il posseduto . Franco Rella nell’introduzione al testo di P.Eisenman La fine del classico , (Cluva Editrice), parla della filosofia come cura al ‘male del reale’, per noi essa è il riferimento per spiegare caratteristiche fenomenologiche architettoniche non comprensibili in altro modo. Ritengo perciò la città, il pharmakon , dell’uomo, nell’accezione greca, inteso come veleno e nello stesso tempo, rimedio, alla sua esistenza. I ‘contatti’, percepiti nel tessuto urbano, diventano rivelazioni; i percorsi, i luoghi che essa riserva e compone, sono riserve di conoscenza sempre attive ed utilizzabili, l’alternanza perpetua tra il corpo e il territorio è qui, che ha ragione di esistere. Certo il primo è poco controllabile perché soggetto a sconvolgimenti repentini a livello emozionale, a passioni incontrollate a scontri ‘salutari’ (aggiungo io), di schoc continui come sono stati definiti da W.Benjamin; è la stessa città, che avvolge destrutturando sistemi di valutazione individuali. Tramuta la percezione in evento appartenente però al singolo corpo, da qui nascono percorsi nuovi capaci, nella loro dinamicità, di trasformare le sensazioni in scelte. La conoscenza, è chiaro, privilegia i percorsi a rischio secondo ordini naturali (vedere a proposito R.Arnheim, Entropia e Arte – Saggio sul disordine e l’ordine , Einaudi 89 oppure E.Gombrich, J.Hochberg, M.Blanck , Arte percezione e realtà , Einaudi 97) . Quale meraviglioso artefatto, allora può essere la città dell’uomo! Quante intelligenze usiamo nell’attraversare una città? Innumerevoli, come gli sguardi che ci vogliono per esplorare l’azione che realizziamo. Tante saranno le intelligenze che estrapoleranno piccoli episodi da una complessa realtà e per ognuno di essi faranno implodere l’esperienza vissuta per coordinarli in una continua e definita visione di spazio, inserito nel tempo. Questo scritto fin qui potrebbe presentare delle emergenze, ma per lo più sono elementi ben conosciuti, già evidenziati e discussi. Adesso, però, come è successo per ogni mio scritto, affrontiamo una situazione ‘limite’, stabiliamo dunque un ambito; la città, riconosciamole l’enorme mole di relazioni che è capace di creare e osserviamola da un altro punto di vista. Come ho sempre ripetuto, la questione complessa è quella di porre la giusta domanda per tarre quante più informazioni possibili utili “… dell’indomabile bestia”, come diceva Le Corbusier parlando della città. L’individuo, evolutosi in un tecnomade , sintesi e confluenza di spostamento fisico-percettivo supportato da un apparato estensivo tecnologico, attraversa la città, oppure è attraversato da essa? Uniamo a questa domanda la riflessione espressa nello scritto Sublimi transitorietà ; e componiamo l’altra domanda, diretta conseguenza della prima; i percorsi, i flussi, le vie di comunicazione al momento della loro progettazione ed al loro conseguente inserimento come vuoti nello spazio urbano , comprendono quei parametri che riguardano l’uso quotidiano di queste componenti ? Se queste sono le premesse allora teoricamente possiamo affermare che l’imponderabile carattere distruttivo del quotidiano, sottile riflessione benjaminiana, pretende una sua concreta considerazione ai fini di capire la duttilità dello spazio architettonico. Un esempio che ho sempre tenuto presente, quando si trattava di analizzare quest’ uso dello spazio, è l’esempio chiarificatore che spiegava a lezione di Storia Contemporanea nella facoltà di architettura di Firenze, il prof. Giovanni Klaus Koenig, parlando dello scalmo del remo di un’imbarcazione, in quel caso era una gondola. Bene, nessun progettista poteva prevedere la conformazione della parte che, per attrito rimaneva ‘tracciata’ da segni unici e originali, da graffi che si definivano come alterazioni conseguenti a sottrazione di materia da un corpo organizzato, praticamente da eventi eccezionali ma previsti nell’uso che se ne faceva. Il remo e la forma della sua adattata conformazione, rifletteva quindi, solo l’uso che ne faceva quel gondoliere con quei movimenti con quel ritmo con quella forza impressa “nel tempo”. Trasliamo il concetto e facciamolo aderire, ora al nostro discorso sulla città. La città paradossalmete vive un continua mutazione, un misto tra ‘consumo’ e ‘rinnovo’, quindi procede ad un’ autorigenerazione organica. Essa, attraversa i corpi, creando quegli eventi che la percezione coglie, ma dei quali prendiamo lo stretto necessario alle condizioni di vita che conduciamo ed eliminiamo tristemente le altre possibilità conoscitive. Della città conosciamo le sue molteplici rappresentazioni che occupano i primi posti nella ricerca urbana; si tratta però, sempre di analisi di piccoli settori urbani e le ricerche, pur se innovative, rimangono contestualizzate per quel settore e per quel tempo della parte presa in esame. Cerco di spiegare meglio ciò che in effetti ha una sua complessità di descrizione. E’ come se, in un grande puzzle , facessimo scivolare tra le giunzioni, tra le fessure o fughe create, delle piccole parti che lo compongono, un flusso di liquido ‘abrasivo’, tanto che molti degli stessi pezzi, dell’intera, e già frammentata composizione, cambierebbero la loro conformazione nel tempo e in certe zone si azzererebbero addirittura i pezzi, destituendoli della loro forma compositiva e alterando il senso generale del quadro finale. Ecco come và intesa una città ‘mutante’. Essa è un organismo vivente del quale ogni tassello compositvo ha strette relazioni con tutta la struttura. Inconsapevoli dell’esaltante materia di sperimentazione che abbiamo fra le mani (nella mente), rimaniamo mervigliati purtroppo dalle molteplici spettacolarizzazioni di visioni virtuali. Ma attenzione, perché virtuale potrebbe essere anche l’emozione dell’attimo che esse provocano facendoci immergere in quell’aura informatica di cui già abbiamo parlato. Rimangono piccoli quadri, composizioni architettoniche ‘singole’ e staccate comunque da un tessuto urbano. Diverso è il momento della loro realizzazione quando sono pronte ad essere inserite e consumate, sollecitate da quelle meravigliose dinamiche che solo la città riesce ad produrre, una verifica strutturale un ‘collaudo’ che nella maggior parte dei casi viene soddisfatto apportando dovute modifiche alla nuova struttura in quanto, solo il passare del tempo può permetterne il controllo. E’ una massa informe, una strabiliante performance mediale moltiplicata per quanti sono i pixel che la formano. E ‘ solo una rappresentazione. L’architettura infatti si legge nello spazio, nell’ uso e nel tempo; unica e sola verifica. Sembra che l’uomo tenti di porre limite alla sua incompiutezza affidando a verosomilglianze ‘di mondo’ i suoi desideri aspettative e speranze architettoniche, compiendo con soddisfazione atti di controllo palesemente illusorio. Nessuno schermo fin adesso ha reso soluzioni che una volta realizzate nello spazio, siano rimaste soddisfacenti come l’asetticità di un renderig plastificato di ultima generazione, aveva previsto. Compaiono accanto alle architetture delle piccole sagome umane differentemente trattate, questi tecnomadi recuperano la scala di proporzioni dell’architettura presentata ma aggiungono una notevole informazione forse più importante della composizione architettonica stessa. Sono sagome evanescnti, quasi parvenze disseminate tra gli edifici o dentro gli ambienti. Trasparenti immagini di riflessi umani. Mosse da vibrazione sembrano quasi coinvolte da intime velocità, forse nel momento di una percezione. Sono tecnomadi in procinto di spostarsi nell’altrove. L’uomo è il primo interprete della città e quindi dell’architettura, il suo profilo che un tempo era nitido e ben definito, ora, vive una condizione fondamentale per il nostro tempo, ha compreso l’importanza dello spazio, da esso infatti, si lascia attraversare e con esso, da tutta la città. Una condizione di mutazione in corso, una genetica lenta irreversibile ininterrotta trasformazione che la nostra percezione dell’esistere, sta attuando. Il tecnomade è l’ultimo stadio della muazione, esso è però, anche connessione quindi, confluenza di spazio architettonico. Le estensioni tecnologiche che il presunto o illusorio controllo del quotidiano, gli ha dato per meglio relazionarsi al luogo, contribuisce a svelare il suo stato di figura attraversata e attraversante. Corpi che con il loro movimento secondo percorsi e flussi sempre più de-territorializzati (vedere l’articolo di Massimo Cacciari, Nomadi in prigione ) consumano materia. Lo spostamento ‘abrasivo’, consuma la città smussando brani di costruito, cesellando nuove forme compositive che nessuno aveva previsto e descritto fin adesso. E’ l’uso della città che ne fa il tecnomade a suggerire le nuove vie di fuga, (vedere fughe metropolitane articolo on – line, dell’ arch. Paola D’Arpino) di trasformazioni inattese ed impreviste, a permettere quella mutazione del corpo sia cittadino e sia organico dell’individuo attraversante (vedi Simulazione d’ a ssenz a ). Nell’istante dell’urto fisico-visivo, deforma e sbozza quei profili umani trasformandosi in individuabili ambiti senza margini, irriducibili percezioni di tecnomadi immersi in un urbano tutto ancora da conquistare. Percepiamo allora l’essenza decostruttiva come una delle molteplici e fondamentali possibilità di forme di comunicazione-traduzione del reale (teoria di J. Derrida). Quanti pezzi di città sono rimasti nella nostra mente, arrivati da un lungo viaggio? Quanti ambiti spaziali la nostra percezione ha raccolto, quanti profili umani e architettonici abbiamo prelevato da quegli spazi vissuti? Quante visioni diverse abbiamo composto osservando il paesaggio durante il viaggio? Lo spostamento fisico e percettivo, rende i corpi sensibilissimi ( La soglia in d iss o lvenz a ) favorendone la scomparsa dei margini, e la città, intanto non ha fatto altro che attraversarci lasciadoci esperienze residuali da reinvestire nel prossimo spostamento guidati, ora da una nuova fascinosa velocità. Quanti dipinti ed opere del grande genio U. Boccioni dovrei raccontare per confermare il profetico studio formale di verità architettoniche contemporanee che fondono il corpo umano e la città generando l’individuo tecnomade ? Le sue intuizioni scultoree certo precorrevano incidenti metropolitani raccontati da J.G.Ballard, le sue contaminazioni materiche preparavano ad una connessione estensiva trattata da Mac Luhan. Io credo, che dal Frankenstein di Mary Shelley, al Nexus – 6 (androide di Blade Runner), l’idea di uomo urbano, stia mutando nella sua essenza, modificando il concetto stesso di corpo, non più somma di più parti diverse, ma una sottrazione del corporeo per una maggiore confluenza delle percezioni. Il timore è la perdità dell’identità però il discorso è affascinantemente paradossale! Più la tecnologia estende le nostre funzioni corporee per territorializzarle, quindi ci avvicina a controllare l’ambiente e più la nostra mente evade partecipando a mondi altri, in un tempo ‘ denso ‘ di percezioni distanti, alternative poste in velocità. ” La forma dinamica, per la sua essenza mutevole ed evolutiva, è una specie di alone invisibile tra l’oggetto e l’azione, tra il moto relativo e il moto assoluto, tra il visibile e l’invisibile, tra l’oggetto e il suo proprio indivisibile ambiente. E’ una specie di sintesi analogica che vive ai confini tra l’oggetto reale e la sua potenza plastica ideale e solamente afferrabile a colpi di intuizione. ” Da Pittura e scultura futuriste di Umberto Boccioni, Vallecchi editore. “… l’uomo occidentale vede tutto il mondo rifluire entro di sé, direttamente e letteralmente dentro il suo corpo. Dopo l’esplosione dell’uomo nel mondo, l’implosione del mondo nell’uomo “. tratta da, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti , Padova, Muzzio 96. Nota di rete dell’autore

La Redazione
Architettare.it è un Vortal dedicato ad architettura, design e lifestyle. Nasce nel 2000, come blog di studenti dell’Università di Architettura di Roma La Sapienza. Pubblica il primo articolo nell’Ottobre dello stesso anno e dalla data di fondazione ha ricevuto diversi apprezzamenti dalla critica e dal pubblico, tanto da essere uno dei siti più apprezzati e longevi del settore.

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