La Biennale d’Arte di Venezia

51° Biennale di Venezia

di Riccardo Venturi

I Oggi l’arte è più una porta da oltrepassare che una finestra attraverso la quale guardare”, così María de Corral, co-curatrice della Biennale, in un’intervista pubblicata su art press (n. 313, giugno 2005). Una porta che non affaccia tuttavia su una stanza isolata e privata bensì su esperienze personali capaci di trasfigurarsi in esperienze collettive. L’artista infatti, secondo la de Corral, è colui che parlando di sé parla per noi e soprattutto di noi. Se da tempo dunque l’arte non spalanca più finestre da cui guardare il mondo, saprà la Biennale essere perlomeno una porta sulla scena artistica contemporanea? Difficile rispondere positivamente, la domanda andrebbe riformulata in modo meno ambizioso, anche se le ragioni per essere contenti non mancano, a partire dall’allestimento, leggibile e a misura d’uomo, senza le pareti mobili e le corse a ostacoli della precedente edizione. Due anni fa l’ufficio stampa era un girone dantesco, quest’anno funziona bene, peccato che per raggiungerlo bisogna attraversare tutte le Corderie e le Artiglierie dell’Arsenale. Due anni fa si tirava tardi a feste esclusive, bevendo per dimenticare quello che si era visto di giorno; quest’anno regna un’austerity antimondana anche perché i veneziani sopportano male questa manifestazione, priva dei vip della biennale di cinema ma ciononostante piena di insolenti strombazzatori. Due anni fa mancava il padiglione cinese, quest’anno manca – oltre a quello italiano, pietra dello scandalo – quello iracheno. Ma a Venezia a non mancare mai sono le occasioni di polemica. Quando, ancora studente, visitai la Biennale del ’97, per la prima volta con cognizione di causa, rimasi sorpreso dalla virulenta reazione dei critici. Ma effettivamente c’erano opere che avevo visto finora solo sui libri, come se la Biennale fosse un manuale illustrato di storia dell’arte e non un laboratorio della creazione artistica degli ultimi due anni. Quest’anno persino i no global hanno partecipato agli affollati giorni del vernissage, manifestando contro la gestione degli spazi pubblici della città e allestendo il Mars Papillon che, con più fondi, potrebbe diventare in futuro il vero appuntamento off della kermesse. Veleni anche sulla nave di Fabrizio Plessi, alta 40 metri e issata sulla laguna come un pennone, l’opera più costosa di questa edizione, da molti congedata come un pretenzioso monolite. Ad ogni edizione della Biennale è poi legato un (mancato) scandalo: quest’anno è il turno di Francesco Vezzoli, in cui il trailer di un ipotetico remake con Gore Vidal del Caligola di Tinto Brass, pieno di travestiti e sesso esplicito, si chiude con il primo piano di un’antica medaglia romana in cui è effigiato il volto di Benedetto XVI. Per chi ha visto il Satyricon di Fellini lo scandalo non esiste, a meno che il ministro della Cultura si chiami Buttiglione, noto in tutta Europa per le sue posizioni sulla morale sessuale… A onor del vero, pochi ministri si erano finora aggirati per gli spazi della Biennale con tanto entusiasmo e curiosità. Al contempo sembra che il mitologico Gillo Dorfles si aggirasse per le sale solo con se stesso, a meno che si trattasse di un avatar. Sulle pagine del Corriere della Sera (11 giugno 2005) ha risposto per le rime al ministro: “Trovo assolutamente assurdo scandalizzarsi per così poco. […] metter in campo un pudore offeso per cose più che conclamate è francamente démodé”, nonché l’affondo finale: “Soffermarsi su temi come questi [dissacrazione della religione, atmosfere dionisiache] denota un atteggiamento provinciale”. II Ma arriviamo al dunque. Le mostre organizzate da María de Corral al Padiglione Italia (L’esperienza dell’arte) e da Rosa Martínez all’Arsenale (Sempre un po’ più lontano) sono prive di ogni linea critico-teorica, di ogni responsabilità curatoriale e di ogni scelta politico-espositiva forte. Non si tratta di una biennale old fashioned ma neanche di un’edizione sperimentale e militante, come voleva esserlo, pur tra mille difficoltà, quella di Bonami. Negli striminziti statements pubblicati nel triplo catalogo (come dire, non era lo spazio a mancare), la Martínez scrive che “nel traffico incessante di messaggi, una delle funzioni fondamentali del curatore è diminuire il frastuono, assegnare valore e organizzare sintassi e discorsi che ne delineino il significato”. Il critico come vigile delle metropoli artistiche? Ma nel suo testo la de Corral si propone piuttosto un’esposizione “che non [sia] storicistica né lineare”, o meglio “che non miri solo al concetto o a una visualizzazione gratificante, ma che sia ricca di riflessione e piacere”. Quest’ultima frase, se non frutto di una traduzione superficiale (come vorremmo sperare), è quanto di più retorico e contorto si potesse concepire: non mirare al concetto ma dare spunti di riflessione; non puntare su visualizzazioni gratificanti (esempi?) ma non rinunciare al piacere. Insomma tutta la mostra si tiene sopra un’ingiunzione falsamente disgiuntiva, degna di un sofista: non questo o quello ma questo e quello; o meglio “non questo e quello ma questo e quello”, oppure “questo e questo, quello e quello” – per non scontentare nessuno. E’ un esercizio crudele ripassare con la matita rossa le quattro pagine che costituiscono l’impalcatura teorica della 51esima Biennale e che somigliano piuttosto a degli haiku, o ripercorrere le audaci contorsioni concettuali alla ricerca di una frase se non intelligente perlomeno intellettualmente onesta. E non è una questione da poco perché cedere su questo fronte ha le sue conseguenze: se una manifestazione come la Biennale non ha più bisogno di articolare un discorso critico, allora quello di Basilea è più che uno spettro. Infatti il problema non è solo strutturale alla città lagunare, che fuori dalle Biennali non promuove l’arte contemporanea ed è sprovvista di un calendario di eventi e mostre capaci di attirare il grande pubblico (la riapertura di Palazzo Grassi ci salverà?). Il fatto è che la Fiera di Basilea, aprendo i battenti a ridosso della Biennale, crea un clima di concorrenza. Il terzo giorno di vernissage Venezia si era svuotata: erano rimasti solo gli sfigati senza aereo privato e quelli che non avevano trovato su internet le tariffe low cost, una cuccetta in un treno notturno, un passaggio in macchina dividendo le spese o altri mezzi di fortuna. Chi è rimasto non ha potuto che constatare l’atmosfera da day after, con qualche sparuto visitatore pagante e qualche famigliola di turisti curiosi. Basilea si pensa oramai come un “barometro della creazione artistica contemporanea sul piano internazionale”, e non sono le carte a mancargli: 275 gallerie (fra cui 64 dagli Stati Uniti, 37 dalla Svizzera, 14 dall’Italia) su 810 candidate; conferenze mattutine che guardano al futuro, ovvero al mercato cinese e alla crescita verticale del suo sistema museale (il governo ne ha annunciati 1000 entro il 2015), o al ruolo della pratica curatoriale in rapporto al collezionismo (a cui partecipa una certa María de Corral); proiezioni in anteprima, come il documentario di Sydney Pollack su Frank O. Gehry o il primo lungometraggio di Tracey Emin. Senza dimenticare, oltre alle inaugurazioni con rinfreschi a base di sushi, attività collaterali di alto livello come la retrospettiva di Jeff Wall e soprattutto la quinta edizione di Art Unlimited. Una vera e propria mostra, allestita in una enorme hall adiacente alle gallerie, senza gli stand che danno alle fiere un’atmosfera precaria da accampamento e in cui il critico Simon Lamunière ha selezionato 72 dei 170 progetti arrivati da ogni parte del mondo. A tenerli insieme: la loro difficoltà di realizzazione, a causa delle dimensioni o dei costi di produzione. Insomma il problema non è solo che le Biennali somigliano sempre più ad Art Unlimited, che resta un evento collaterale ad una Fiera (per quanto la più importante al mondo) e quindi giustamente immune da preoccupazioni critico-teoriche, dove a tenere insieme le opere è solo la dimensione extra large. Il problema è che al collezionista quanto al semplice visitatore Basilea offre più di Venezia e le mostre nella hall sono vere e proprie piattaforme sperimentali, quello che non si può più dire di tante Biennali. Non solo: Venezia è ormai diventato il trampolino di lancio per gli artisti che si venderanno bene a Basilea. E’ il caso di Annette Messager, premiata alla Biennale per la migliore partecipazione nazionale e richiestissima alla fiera. Del resto questa è la politica culturale francese: puntare sui suoi artisti di Stato, meglio se docenti nelle prestigiose Beaux-Arts di Parigi. Trasformando il padiglione in un ambiente intimo e magico, il riuscito intervento della Messager era dopotutto solo una prova d’orchestra per la retrospettiva che il Musée d’Art moderne de la ville de Paris, chiuso da anni per lavori, gli consacrerà nel 2006. Da non trascurare infine è la tendenza della Biennale, che resta aperta per cinque mesi, a puntare tutto sull’effetto dei primissimi giorni, bruciando e dissipando il suo potenziale euforico. La Documenta di Kassel ad esempio, ha un’agenda impressionante di incontri con artisti e critici, cicli di proiezioni, dibattiti pubblici e attività collaterali che si susseguono lungo tutto l’arco d’apertura, lo stesso della Biennale. Ma questa si sgonfia in pochi giorni, e non ci riferiamo solo a quelle performance che si tengono nei giorni della vernice e di cui non ne restano che tracce poco leggibili, detriti ammassati in una sala che, come reperti archeologici, pochi visitatori sapranno leggere (menzione speciale per John Bock). III Considerata la pochezza della proposta critica generale, ci prendiamo la libertà di ripercorre ora la Biennale con uno sguardo rapsodico o a random, più attento alle singole opere che alle sfuggenti o inesistenti dinamiche complessive. “La pittura non muore mai”, e quest’edizione non fa eccezione. Il giusto omaggio reso ad Agnes Martin, scomparsa lo scorso anno, guida da lontano le riletture della pittura monocroma: incorniciati come quadri, i lavori di João Louro sono in realtà didascalie senza immagini, sostituite da superfici bianche o nere. Nell’opera in bianco si parla di Brigitte Bardot, quella sull’11 settembre è invece accompagnata da una stele nera che da lontano scambieremmo per un Ad Reinhard. Con Blind image Louro dà al monocromo nuova linfa vitale, inserendolo nei magazines di gossip, ovvero nel cuore della cultura pop, o calandolo nell’attualità per farne emergere la trascurata componente socio-politica. Sospeso tra il sublime di Newman e l’incommensurabilità della visione di James Turrell è invece Olaf Nicolai, con un lavoro concettuale sull’osservazione delle stelle cadenti nella notte di san Lorenzo, che, secondo la leggenda, altro non sarebbero che le sue lacrime. All’insegna di una riduzione di mezzi espressivi, Juan Uslé dipinge grandi tele che giocano con le tonalità del grigio, fatte di minuscole bande di tratti verticali. Nonostante la mancanza di colore, le tele trasmettono un’intima sensualità, soprattutto quando esposte in una sala isolata, senza interferenze esterne, una accanto all’altra, quasi a voler doppiare le mura. E’ dai tempi di Mark Rothko – cui quest’esperienza va fatta risalire – che il colore aspira alla dimensione dell’architettura, che la pittura tenta di conformare uno spazio a tre dimensioni. Tra i più giovani, colpisce la maturità delle piccole tele di Matthias Weischer, interni astratti e ciechi, spogli e deserti, nature morte da cui il tempo sembra fuggito e in cui le pennellate stendono una spessa pasta materica che, strutturando la composizione, fa le veci del disegno. Legato alla pittura è, a suo modo, anche il video di Perejaume: sulle prime non si vedono che animali al pascolo, finché ci accorgiamo che sullo schermo è impressa la firma di Courbet e di cui le immagini citano l’opera. Così il video ripensa la pratica pittorica e interferisce con la tradizione del Realismo, seppure, secondo l’ampolloso testo in catalogo, ci troveremmo davanti alla “decostruzione geologica della pittura come luogo di legittimazione per la storia nella cultura occidentale”, intesi? Identità in costruzione. Tania Bruguera si serve di un corridoio fatto di bustine da tè usate per mostrare le contraddizioni del colonialismo e di deculturalizzazione. Esportato dagli inglesi in Inghilterra, il tè venne infatti in seguito importato in India e spacciato come prodotto originale inglese. I piccoli video che scandiscono il percorso, della grandezza di una bustina, creano un dialogo tra l’organico e il tecnologico, fedeli all’esperienza personale dell’artista in India, dove le mucche attraversano strade piene di internet coffee. Subodh Gupta espone invece centinaia di stoviglie tirate a lucido che sembrano uscire dalla cucina di un ristorante di lusso. Un artista indiano che vive a Nuova Delhi e le cui opere non sfigurerebbero da Ikea. Pilar Albarracín decostruisce gli stereotipi nazionali spagnoli, dalla miscela di flamenco e falangismo di Franco alla rappresentazione della donna nella Carmen di Bizet. La costituzione dell’identità nazionale è infatti spesso legata ad efferati episodi di violenza. In Viva España un gruppo di musicisti corre dietro all’artista per le vie di Madrid, al suono di insopportabili motivi popolari. Anche Vasco Arujo insiste sulle questioni di identità e razza (messicana, gringo, indiana): una donna texana racconta, a parole sue, “La fanciulla del West”, opera lirica di Giacomo Puccini incentrata sul triangolo amoroso tra uno sceriffo, un bandito e una donna amata da entrambi. Kimsooja presenta sei video in cui l’artista viene ripresa di spalle, al centro di una strada trafficata: le persone le passano accanto, a volte incuriositi, altre indifferenti come se si imbattessero in un palo della luce. Ogni ripresa è stata girata in un paese diverso: Nepal, Cuba, Brasile, Chad, Yemen, Israele, che si aggiungono ai paesi già toccati, come India, Messico, Egitto e Nigeria. Adrian Paci non ha invece bisogno di spostarsi dalla natale Albania per trasmettere lo stesso senso di spaesamento abbordando la società tradizionale, la famiglia e la patria come figure metaforiche. L’Albania resta sullo sfondo, trasfigurata in uno spazio interiore, in uno stato psicologico, dove non è più questione di passaporto. Chen Chieh-Jen ci ricorda come al boom economico che ha toccato Taiwan durante gli anni sessanta è seguita una terribile recessione. Nel suo video senza sonoro, un gruppo di donne torna nella fabbrica, oramai in disuso, dove hanno lavorato per anni, fingendo di riprendere le loro vecchie mansioni. Condizione femminile. Deludenti le sculture di Louise Bourgeois, due blob informi sospesi in aria, al contrario dei disegni di Semiha Berksoy – versione turca della Bourgeois che pochi conoscono – fatti di deformazioni infantili e forme, e forze, sessuate. Nel giardino fiorito a forma di tao di Ghada Amer, l’acqua e i fiori simboleggiano l’amore, per quanto il suo interno possa essere percorso da una persona sola alla volta. Le foto di interni di Bülent Hangar trattano della condizione della donna nella società turca e in particolare della violenza domestica, al riparo da sguardi inopportuni e favorita dalla paura e dall’omertà. Un tema tuttavia solo evocato attraverso scatti asciutti quanto enigmatici, come quello di due bambine che si coprono il volto o fissano il pavimento. Anche Kiki Smith, elegante e allusiva come sempre, allestisce alla Querini un percorso di interni domestici, in cui a prevalere è un indefinito senso di intimità. Ogni particolare è prezioso: dalla carta dei parati al vecchio mobilio della cucina, dalle foto e le stampe alle sculture di una fanciulla tipiche dell’artista. Da parte maschile, i Blue Noses – un trio russo autore di gag idiote e video volutamente semi-amatoriali – presentano una serie di 12 video, ognuno inserito in una scatola di cartone, che gioca sul rapporto tra tre uomini e una donna. Esplicite infine le foto di Cristina García Rodero, che trattano con lo stesso pathos il sublime e l’abominevole, l’estasi mistica e quella sessuale, l’eros e la religione, il convento e il sexy shop, in una versione catto-iberica del tantrismo. Lavorare lo spazio. Le installazioni non mancano mai di sorprendere: i palombari in pigiama del padiglione ungherese istituiscono in realtà un dialogo colto e trasversale con la storia marittima di Venezia. La repubblica ceca e slovacca riversa a terra un tappeto di biglie con cui i visitatori giocano a pallone, mentre su dei pannelli trasparenti sono stampate delle parole che, nei nostri giochi linguistici, trattiamo come biglie: peccato siano opera di due artisti diversi. Il Belgio offre invece una promenade su un pavimento di bottiglie rovesciate e un’immersione in una stanza blu Klein, ma togliersi le scarpe non è sufficiente a farne un’esperienza. Nella stanza di Jorge Macchi, pareti, pavimento e soffitto sono scheggiati da profondi buchi; dal soffitto pende una palla da discoteca, di quelle che, girando, rifrangono la luce, nei punti esatti in cui si trovano ora le scalfitture. Un lavoro riuscito, dove il crinale tra banale e geniale non è mai stata tanto fine. Nikos Navridis firma l’installazione migliore, una messa in scena di Breath (1968) di Samuel Beckett, in cui immagini di sacchi della spazzatura scorrono velocemente a intermittenza sul pavimento, creando un indescrivibile senso di vertigine. Non era facile confrontarsi con la pièce di Beckett, ridotta ai suoi elementi primi: luce e silenzio, respiro e grida che somigliano a vagiti. La scena si trasforma in uno spazio che esiste tra silenzio e un lampo di luce, mentre il corpo è una presenza senza linguaggio, rappreso in un respiro o un grido. Sempre in ambito video, Eija-Liisa Astila racconta la malattia del suo cane, usando, come di consueto, diversi schermi disposti a semi cerchio, stesso accorgimento tecnico di Candice Breitz, con intenti e risultati diversissimi. Per l’artista finlandese si tratta di raccontare una storia a più voci in modo non lineare, rispettando le tortuosità e i tentennamenti, i salti e gli squarci della memoria. Con i suoi schermi al plasma, l’artista sudafricana crea invece un effetto cacofonico, sovrapponendo voci e volti di famosi attori hollywoodiani che parlano di maternità e paternità. Leandro Erlich punta infine 15 telecamere sulle finestre di un palazzo, restituendoci pezzi di vita quotidiana – tra La finestra sul cortile e La vie, mode d’emploi di George Perec. Raté! Ogni Biennale ha la sua pletora di incompresi, autori di opere che non trasmettono né suscitano alcunché e che si registrano solo con la coda dell’occhio, come parte del rumore generale. Si tratta dunque di una categoria del tutto arbitraria e soggettiva, perché ognuno ha le sue idiosincrasie e i suoi colpi di sonno. Maider Lopez costruisce un insignificante pavimento di assi mobili che ci introducono alle ultime banali foto di Thomas Ruff in jpeg. Jimmie Durham presenta un ammasso di oggetti, frutto di una poco comunicativa installazione; quella di Paloma Varga Weisz consta invece di tre donne incappucciate legate ad un palo: i richiami all’attualità sono tanto facili quanto poco originale l’elaborazione e la resa finale. Miroslaw Balka delude, con un corridoio in cemento armato animato da potenti ventilatori, come nell’imbarazzante padiglione russo. Trasmettono maggior tensione le disordinate installazioni di Micol Assaël, in cui si ha l’impressione che il pericolo sia sempre imminente. María Teresa Hincapié de Zuluaga, in un’atmosfera adombrata da tempio new age, evolve lentissimamente nello spazio con timidi passi di danza, tra soavi note di chitarre, candele e incenso. Prezioso o pretenzioso? Nel 2003 Gabriel Orozco aveva sorpreso e convinto tutti nell’insolita veste di curatore: la sua mostra minimalista in uno spazio nudo e non attrezzato, era giocata sullo spazio liminare che divide un oggetto da un’opera d’arte. Anche quest’anno il giudizio è stato unanime: le sue pitture acriliche, ricami di pallini rossi e blu, non sono piaciute a nessuno. Così il grandissimo Antoni Tàpies, delle cui ultime opere non si ricorda che la debolezza. Inflazionato il padiglione coreano: 15 gli artisti invitati; si salva il terrazzo, trasformato in una gabbia rossa al cui interno si può circolare chiedendosi che fine abbia mai fatto Nam June Paik. Indipendentemente dal merito degli artisti, a volte le opere sono occasioni mancate, perché fuori posto o perché anche nelle biennali più ordinate – come questa – qualcosa si perde sempre nella mischia. La riflessione sulla costruzione dei musei di Rem Koolhaas richiedeva una soglia d’attenzione rara in occasione di eventi espositivi di tale mole. Shit in yout hat – Head on a chair di Bruce Nauman è finito alla Biennale solo perché appartenente ad una Fondazione in cui la curatrice ha lavorato per anni. Fuori posto anche Bernard Frize, un grande pittore che non riesce ad amalgamarsi bene all’interno del Padiglione Italia e di cui nessuno sembra già più ricordarsi. Il film di Stan Douglas, remake di un film cubano degli anni sessanta, forse è interessante, ma mezz’ora in una stanza sembra non passare mai. Suggestivo al contrario Flex, video in b/n di Zwelethu Mthethwa, in cui viene inquadrata solo la testa di un nero, impegnato in un’attività manuale misteriosa, visto che il resto del corpo resta fino alla fine fuori campo. Per chiudere brutalmente, in questa edizione gli artisti innovativi non mancano. Ci auguriamo, nel 2007, di poter dire altrettanto dei curatori. Riccardo Venturi * Mi permetto di rimandare il lettore che voglia saperne di più all’articolo in corso di pubblicazione sulla rivista “Lo straniero”, n. 64, ottobre 2005.

La Redazione
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