Paesaggi senza cornice

Architecture and water
di Michele Manzini

Per l’uomo moderno la possibilità di guardare ed ammirare un paesaggio si ha in virtù di uno spazio che si frappone tra lui e la natura.
Un paesaggio è sempre e soltanto ciò che vediamo ad una certa distanza e questo sia in senso ottico che in senso spirituale. La distanza è l’elemento fondamentale perché si possa parlare di paesaggio.
L’uomo moderno contempla la natura come oggetto a distanza estraendo dal tessuto omogeneo della visione alcuni elementi che sono considerati privilegiati rispetto ad altri.
Questo significa che questi elementi vengono individualizzati, così come viene individualizzato l’io osservante.
Nell’antichità e nel Medioevo non era presente il senso del paesaggio perché ancora non era avvenuta quella risoluzione dello spirito che libererà l’uomo e lo definirà come individuo o meglio come individuo osservante.
A tale proposito vi è un avvenimento sul quale ritengo sia importante riflettere. Un evento isolato, che seppur non rappresentando l’origine di un’idea moderna di paesaggio, pone importanti questioni sull’argomento.
L’episodio in questione è la salita al Monte Ventoso effettuata da Francesco Petrarca il 26 aprile 1335.
Come ha recentemente ricordato anche Ritter, questa salita fu una delle prime descrizioni di ascensione fatta senza alcuna finalità.
Il poeta, infatti, si avvicina alla natura non per scopi di ricerca o per esigenze militari, come spesso facevano i grandi condottieri dell’epoca medioevale, ma con l’unico scopo di godere di un bel paesaggio. In questo senso il comportamento del Petrarca nei confronti del concetto di paesaggio è profondamente moderno.
Questo atteggiamento, infatti, viene avvertito come nuovo ed insolito a tal punto da stimolare l’esigenza nel poeta stesso di una qualche spiegazione e di una sua legittimazione di tipo teorico.
Tenta allora una sua codificazione e per farlo fa riferimento alla tradizione platonico-cristiana, che conosceva molto bene e che gli suggerisce una relazione canonica e quasi scontata tra il termine ascesa ed il termine ascesi. Ovvero l’ascensione verso la sommità del monte è anticipata dal Petrarca in analogia all’elevazione dell’anima verso Dio.
L’uomo sale verso la sommità del monte così come l’anima deve compiere il suo faticoso cammino verso l’alto.
La visione del paesaggio che si gode dalla cima è resa analoga alla contemplazione propriamente teorica.
Contemplare questa vastità, questa immensità, questa bellezza è come contemplare una verità.
La teoria alla quale fa riferimento il Petrarca è quindi uno sguardo preciso, che ci permette di cogliere l’ordine delle cose così come sono state concepite da Dio e così come sono state create.
Ma ciò che diventa per noi interessante considerare, non sono questi tentativi di legittimazione ma, il loro inesorabile fallimento.
Il tentativo del Petrarca di stabilire una distanza tra lui e le cose del mondo è, infatti, destinato a fallire.
Arrivato sulla cima del monte il poeta apre a caso le Confessioni di S.Agostino, un testo dal quale non si separava mai e legge “…Gli uomini salgono e guardano con stupore la cima dei monti e i flutti marini sconfinati, le correnti che scorrono lontano, il lembo dell’oceano e l’ordine delle stelle. Ma in questo modo non prestano più attenzione a se stessi…”e poi prosegue “…la cosa più stupefacente è la verità che dimora in te stesso…”.
A questo punto il Tetrarca si trova completamente sbilanciato.
Il suo tentativo di far coniugare l’esperienza del paesaggio con l’esperienza dell’anima viene messo in forte discussione.
Il fallimento di questo tentativo diviene quindi l’elemento determinante.
Esso, infatti, sembra suggerirci che l’esperienza del bello in natura non si può legittimare in termini teorici, in termini razionali, in termini logici o concettuali.
Siamo di fronte al primo esempio di quella crisi della distanza tra noi e il mondo che sarà uno dei toni dominanti di tutta la cultura moderna del Novecento.
La crisi della distanza non riguarderà solamente il tema del paesaggio, ma sarà un tema che le avanguardie storiche, ed in particolare il Surrealismo assumeranno come centrale nella loro estetica.
Per le avanguardie arte e vita si confonderanno. La distanza che noi tradizionalmente siamo soliti attribuire all’arte rispetto alla vita tenderà a scomparire.
L’arte diventerà vita e la vita diventerà arte.
Così sarà per molti artisti e così sarà anche per Baudelaire. Il poeta sarà colui che sceglie domicilio nel numero e che scende nelle folle e nei flussi della vita.
In uno spazio caratterizzato dalla densità e dalla prossimità ritrovare una posizione in cui sia possibile la visione a distanza diventerà sempre più problematico.
Era ormai entrata in crisi non solo quella visione antropocentrica del mondo che poneva il soggetto come attore assoluto della conoscenza ma anche la possibilità di organizzarla secondo una visione teorica compiuta.
La distinzione tra paesaggio e soggetto era ed è così abolita.
Come nell’arte la perdita della cornice trascina il paesaggio in una sorta di deriva continua dove il quadro percettivo cambia continuamente o meglio dove il quadro si dilata all’infinito includendo anche il soggetto.
Una posizione quindi, che libera il paesaggio dai soli aspetti ideologici fatti di significati storici, politici e culturali e lo avvicina, invece, maggiormente al soggetto e alla sua corporeità.
Se l’ideologia era accompagnata da una falsa coscienza che liberava l’uomo dalla fatica e dalla responsabilità di pensare o di non pensare; aprire la percezione di ciò che ci circonda anche alla dimensione del corpo e del sentire genera una serie infinita di nuovi paesaggi.
Ricalcolare sensazioni che già tutti noi abbiamo provato ed approvato nel mondo e rispetto alle quali non abbiamo esigenze teoriche ci libera dalle false coscienze ed in quel momento, nella mescolanza e nel confonderci con le cose del mondo ritroviamo la nostra innocenza.